Parte terzaLo status concettuale della teoria psicoanalitica |
TEORIA CLINICA E METAPSICOLOGIANegli scritti recenti, elaborati sia all'interno che all'esterno della comunità psicoanalitica, si va compiendo una distinzione sempre più radicale fra teoria clinica e metapsicologia, accompagnata dall'idea che la prima è al cuore della teoria psicoanalitica e la seconda va rifiutata in quanto pseudoscienza nel peggiore dei casi, modalità esplicativa inappropriata alla materia della psicoanalisi nel migliore dei casi (cfr. per esempio Klein, 1976; Rycroft, 1966; Gill, 1976). La presentazione più elaborata e sviluppata di questo punto di vista si trova negli scritti di Schäfer (1976, 1978). Coloro che sostengono un approccio ispirato esclusivamente alla teoria clinica rifiutano qualsiasi resoconto o modello che faccia ricorso a una modalità di spiegazione causale propria delle scienze naturali, che cerchi di stabilire delle generalizzazioni e di chiarire i meccanismi soggiacenti ai fenomeni comportamentali osservati. Ciò che rimane, allora, è l'affermazione implicita ed esplicita che le formulazioni cliniche della psicoanalisi sono sia autosufficienti sia le uniche adatte a spiegare i fenomeni di cui si interessa la teoria psicoanalitica. Fanno anche parte dell'insieme degli atteggiamenti che costituiscono l'approccio clinico le affermazioni che la situazione clinica psicoanalitica è la fonte ideale sui generis per ottenere osservazioni e dati per le formulazioni cliniche; che la psicoanalisi è una disciplina ermeneutica — ossia che formulazioni cliniche (e interpretazioni terapeutiche) sono interessate più a decifrare significati nascosti che allo stabilire leggi empiriche. Infine, alcuni — ma non tutti — coloro che difendono questo approccio sostengono che il metodo attraverso il quale va capito il comportamento umano è qualitativamente diverso da quello impiegato per comprendere i fenomeni inanimati, dal momento che il primo si affida all'identificazione empatica (Home, 1966). Prima di passare ad alcune osservazioni sulla posizione or ora descritta sarà utile cercare di capire cosa s'intende specificamente per formulazioni cliniche in questo contesto. Un esame degli scritti dei sostenitori dell'approccio esclusivamente clinico indica che ciò che essi intendono sostanzialmente per formulazioni cliniche o teoria clinica è un resoconto esplicativo nel quale il comportamento o i sintomi della persona sono spiegati in relazione ai suoi obiettivi, ai suoi desideri, ai suoi scopi consci o inconsci. Qualsiasi comportamento, per quanto bizzarro o comune, va capito in relazione ai desideri e agli obiettivi di colui che lo mette in atto, a ciò che sta cercando di fare (in un mio scritto precedente [Eagle, 1980] ho definito questo approccio come «spiegazione motivazionale»). Questa posizione è elaborata nel modo più completo ed esplicito nel concetto di «linguaggio dell'azione» proposto da Schäfer (1976) (la fiducia che si ripone in spiegazioni basate su desideri e obiettivi di chi effettua l'azione poggia in gran parte sulla distinzione filosofica tra ragioni e cause e sulla filosofia dell'azione). A mio avviso, molte delle critiche mosse e delle posizioni sostenute da questo gruppo sono valide (come cercherò di dimostrare, sono le soluzioni che essi propongono a essere problematiche). Per esempio, essi sottolineano la reificazione e la personificazione che molte formulazioni metapsicologiche comportano. In altre parole, essi rilevano, del tutto a ragione, che la traduzione delle osservazioni cliniche in un linguaggio metapsicologico non garantisce affatto un livello esplicativo più profondo. Per prendere a prestito un esempio da Sand (1981), tradurre «lui si è innamorato di lei» in «egli ha investito di libido la propria rappresentazione di lei» nulla aggiunge al valore esplicativo. Non fa altro che generare l'illusione di essere più obiettivo o più scientifico, o di star presentando un livello esplicativo più profondo. E basta scorrere le riviste specializzate e i libri di psicoanalisi per accorgersi di quanto diffusa sia quest'illusione. Per concludere, credo che i critici della metapsicologia abbiano parzialmente ragione quando affermano che alcune formulazioni cliniche si basano soprattutto sulle proprie prove empiriche, e non si possono derivare logicamente dalla metapsicologia. In generale, credo che Sand (1981) sia nel giusto quando vede la metapsicologia freudiana come un modello (o un'analogia o una metafora) inteso ad assolvere una funzione euristica, più che come una teoria capace di dar conto dei fenomeni clinici, verificabile mediante l'osservazione, e in grado di generare predizioni che possono essere confermate o smentite dall'evidenza empirica. Credo che i seguaci dell'approccio esclusivamente clinico abbiano assolto un ruolo molto prezioso nel mettere in luce l'illusione che le traduzioni metapsicologiche abbiano un qualche potere esplicativo significativo. Così pure, a loro va il merito di aver sottolineato che il divario tra le osservazioni cliniche e l'attuale modello metapsicologico non è stato mai colmato, e probabilmente mai lo sarà. Ma queste valide critiche alla metapsicologia, come sottolinea Bowlby (1981), hanno portato a un atteggiamento di sfiducia nella possibilità di riuscire a collegare la psicoanalisi alle scienze tradizionali, e hanno generato posizioni che considero totalmente errate e limitanti. Quali che siano le inadeguatezze della teoria freudiana delle pulsioni o del modello idraulico o di qualsiasi altro aspetto della sua metapsicologia, a mio parere Freud era nel giusto quando cercava un livello esplicativo più profondo nel substrato e nei processi soggiacenti al comportamento che mettiamo in atto e agli obiettivi che perseguiamo. Per Freud, le pulsioni costituivano sempre il substrato di fenomeni psichici più osservabili. Ma la sfida principale che Freud affrontava — quella che ha sempre rappresentato la tensione principale in seno alla teoria psicoanalitica — era il bisogno di capire il rapporto empirico tra una cosa come, per esempio, la secrezione ormonale o la stimolazione ipotalamica o, più in generale, tra il livello neurofisiologico e biochimico da una parte, e un desiderio o un programma o un'emozione o un obiettivo dall'altra, e di integrare questi differenti universi di discorso. È questa ricerca di un livello esplicativo più profondo, più che il contenuto specifico, a costituire per me l'importanza della metapsicologia freudiana. Limitare la psicoanalisi alla cosiddetta teoria clinica e rifiutare qualsiasi forma di spiegazione teorica più profonda significa dichiarare irrilevante questa sfida centrale e, come ho affermato altrove (Eagle, 1981), accettare una forma di spiegazione inadeguata e insufficiente, oltre che isolare la psicoanalisi da un corpus fecondo di fatti e punti di vista. Una cosa è insistere sulla legittimità, persino sulla centralità, di una spiegazione mediante motivazioni e obiettivi, ivi compresi le motivazioni e gli obiettivi inconsci; altra cosa è dichiarare definitive tali formulazioni e limitare una disciplina a queste formulazioni esplicative. Come ho sostenuto prima, se da un punto di vista le motivazioni, le ragioni e gli obiettivi costituiscono un resoconto esplicativo del comportamento, da un'altra prospettiva, più ampia, essi costituiscono i dati stessi che richiedono a loro volta una più approfondita spiegazione. Come ha osservato il filosofo Max Black (1967): «Non appena sono state fornite le ragioni di un'azione, una mente indagatrice vorrà porre domande sulla provenienza e l'eziologia di queste ragioni» (p. 656). L'idea stessa di una teoria puramente clinica non contaminata da alcuna traccia di metapsicologia è illusoria. Per esempio il concetto stesso di desideri e obiettivi inconsci, così centrale nella teoria clinica della psicoanalisi, comporta inevitabilmente ipotesi e considerazioni di ordine metapsicologico. Rubinstein (1976) ha dimostrato che il concetto di desiderio inconscio, benché trattato come un desiderio conscio da un punto di vista di comune buon senso, ad un'analisi critica rappresenta solo un «desiderio come - se», ed è un concetto che «esiste unicamente nel mondo delle scienze naturali, e precisamente sotto la forma di [...] processi di un certo tipo nel cervello di un organismo» (p. 255). Rubinstein ha anche sostenuto che il concetto stesso di derivati di un desiderio inconscio, che è essenziale per una conferma clinica, si basa su ipotesi freudiane di natura energetica (Rubinstein, 1980). Anch'io ho cercato di dimostrare che il concetto di desideri e motivazioni inconsci universali comporta delle ipotesi relative a pulsioni comuni a tutta la specie, e «costituisce più un'asserzione circa la nostra natura biopsicologica che una descrizione delle motivazioni e ragioni delle nostre azioni» (Eagle, 1980, p. 369). Anche Kohut ha affermato che la sua psicologia del Sé è limitata a concetti prossimi all'esperienza e basati sull'introspezione empatica, presumibilmente in opposizione alle formulazioni metapsicologiche freudiane, meccanicistiche e lontane dall'esperienza — una distinzione che certamente rispecchia la dicotomia teoria clinica-metapsicologia. Esaminare fino a che punto il programma di Kohut sia riuscito ad evitare gli assunti meta-psicologici e a limitarsi a concetti prossimi all'esperienza ed empaticamente derivati potrebbe risultare molto istruttivo. Lasciando da parte i problemi relativi al fatto che i processi empatici di cui parlano Kohut e i suoi seguaci e, per esempio, gli analisti del New York Psychoanalytic Institute sembrano sfociare in conclusioni diagnostiche e dinamiche diverse (Gedo, 1980)(un punto questo che esaminerò più oltre), il rilievo dato alle formulazioni empaticamente derivate comporta ulteriori difficoltà. Benché Kohut affermi di affidarsi interamente o prevalentemente all'introspezione empatica, un esame dei suoi scritti rivelerà che essi sono pieni di formulazioni causali dirette e di concetti e speculazioni metapsicologici (per esempio il concetto di «libido narcisistica»; le presunte fasi di sviluppo dell'«autoerotismo» e del «narcisismo primario»; l'idea che la mancanza di rispecchiamento precoce contribuisca in senso causale alle carenze del Sé; lo stesso concetto centrale di «Sé coesivo»). Sottolineo tutto ciò per dimostrare quanto sia diffìcile rimanere entro i confini di spiegazioni del comportamento umano strettamente cliniche, fenomenologiche, prossime all'esperienza ed empaticamente derivate — persino per chi abbia lo scopo dichiarato di rimanere entro questi limiti. Inoltre, come già osservato, il tentativo di servirsi di concetti prossimi all'esperienza quando essi non sono appropriati, e l'illusione di far uso di tali concetti quando in realtà non lo si fa, non può che portare alla produzione e proliferazione di «concetti ibridi» (Slap e Levine, 1978). Le formulazioni e i concetti centrali di Kohut non sono più prossimi all'esperienza o più empaticamente derivati di altri concetti psicoanalitici. Per esempio, le ipotesi di Kohut di natura genetica ed eziologica riguardanti l'importanza di un adeguato «rispecchiamento» e la possibilità di idealizzazione genitoriale non possono in alcun modo basarsi prevalentemente sull'empatia, ma si fondano piuttosto su qualcosa di simile alla seguente inferenza implicita: siccome il paziente adulto nella sua analisi crea rispecchiamento e transfert idealizzante, e siccome sembra aver bisogno del rispecchiamento da parte dell'analista e di questa possibilità che ha di idealizzare l'analista, e sembra trarne beneficio, se ne può dedurre che nella prima e nella seconda infanzia gli sono mancati rispecchiamento e possibilità di idealizzazione adeguati. Ora, questa non è altro che un'inferenza che collega la natura del transfert con presunti eventi precedenti, e chiaramente non ha nulla a che vedere con l'empatia. Per fare un altro esempio, le affermazioni di natura eziologica e le diagnosi speculative di Kohut sui genitori del paziente non possono certo essere basate sull'empatia, ma costituiscono piuttosto un'inferenza implicita riguardo a un rapporto causale tra un presunto comportamento e una presunta patologia genitoriali e le difficoltà attuali del paziente. Questa affermazione di natura eziologico-causale può essere o non essere giusta (si tratta, ovviamente, di una questione empirica), ma è del tutto scollegata dall'empatia. Presentare queste formulazioni sotto le vesti dell'empatia costituisce, a mio avviso, una sottile richiesta di una sorta di immunità, un tentativo di sottrarsi al giudizio. In altre parole, è evidente che se si fa un'esplicita affermazione di natura eziologica per cui A è causalmente collegato a B, perché quest'affermazione meriti seria attenzione è necessario produrre significative prove empiriche, preferibilmente di tipo longitudinale. Ma se si afferma che le proprie formulazioni si basano su «prove cliniche» empaticamente acquisite, i colleghi tenderanno ad essere meno critici e meno esigenti. Ciò che genera particolare confusione in questo campo è il fatto che la psicoanalisi è sia una forma di terapia, sia una teoria del comportamento umano, e che gli scritti psicoanalitici spesso mettono insieme obiettivi e contesti terapeutici e teorici. Formulazioni e spiegazioni ritenute appropriate per il contesto clinico vengono considerate legittime per l'intera teoria psicoanalitica. Per esempio, la posizione «solo teoria clinica» si basa in parte sulla convinzione che essa sia appropriata e sufficiente unicamente per il contesto clinico (mentre la metapsicologia è considerata inadeguata per il contesto clinico). Se abbiamo visto che questa convinzione è illusoria, ciò nondimeno essa ha fornito una ragione d'essere dell'insistenza sull'autosufficienza della teoria clinica. Come altro esempio consideriamo l'importanza attribuita all'«introspezione empatica», di cui parlavamo prima. Certamente, qualsiasi approccio psicoterapeutico (al contrario di alcuni trattamenti somatici e forse della terapia comportamentale) assegna un elevato valore all'empatia del terapeuta nei confronti del paziente nel corso del trattamento. Allo stesso modo, si può facilmente capire quanto sia importante far uso di espressioni e di termini vicini all'esperienza ed evitare il linguaggio metapsicologico nel lavoro clinico coi pazienti. Tutt'altra cosa, però, è elevare e applicare queste considerazioni al rango di princìpi metodologici ed epistemologici che debbano servire da guida e da confine all'edificazione della teoria. In realtà, per quanto plausibile, l'affermazione che empatia e impiego di formulazioni prossime all'esperienza siano terapeuticamente più efficaci di reazioni non empatiche e di formulazioni distanti dall'esperienza necessita essa stessa di essere verificata attraverso dati empirici a loro volta non derivati in modo empatico. Inoltre, una teoria del perché il primo approccio sia terapeuticamente efficace (ammesso che lo sia) non ha bisogno di essere limitata a termini e concettualizzazioni empaticamente derivati e prossimi all'esperienza. Questo breve resoconto delle formulazioni di Kohut dimostra quanto sia difficile rimanere entro i limiti di una spiegazione del comportamento umano strettamente clinica, prossima all'esperienza ed empaticamente derivata — anche per chi abbia il fine dichiarato di mantenersi entro tali limiti. Il fatto è che chi tenta un qualsiasi tipo di spiegazione teorica di ciò che sta osservando, per quanto possa accettare l'empatia e affermare di affidarsi ad essa per le proprie conoscenze, nei suoi resoconti esplicativi finisce ben presto per andare al di là di concetti empaticamente derivati. Forse nel contesto terapeutico vi è una forma di spiegazione eminentemente clinica che facilita quei tipi di obiettivi terapeutici (per esempio l'insight, il riconoscimento di certi scopi e desideri) che sono particolarmente caratteristici della psicoanalisi. Ma le spiegazioni offerte ai pazienti nel contesto clinico hanno, nel migliore dei casi, un'incidenza molto complessa sulla forma che avranno o dovrebbero avere le spiegazioni teoriche dei fenomeni clinici. Se le spiegazioni interpretative nel contesto clinico possono utilizzare il linguaggio personale dei desideri, degli obiettivi e delle emozioni, non vi è alcuna buona ragione per aspettarsi che una spiegazione teorica di questi desideri, obiettivi ecc. debba necessariamente impiegare lo stesso linguaggio e lo stesso genere di concetti. Immaginiamo pure che una persona abbia una sensazione empatica totale di ciò che un'altra sta provando (o addirittura di ciò che un'altra ha provato). Non appena si va al di là di quel punto, tuttavia, e si vuole capire e spiegare perché si prova quel che si prova, ecco che si esauriscono le possibilità di un resoconto empatico. Perché limitare la propria spiegazione alla comprensione (empatica) di ciò che un altro sta provando? Anche qui vale quanto ho sottolineato a proposito dei limiti della spiegazione motivazionale — vale a dire, vogliamo conoscere la «provenienza e l'eziologia» dell'esperienza, oltre che le sue motivazioni. La spinta a elaborare una spiegazione che chiarisca i fenomeni osservati a un livello più teorico e astratto è la spinta che soggiace a tutti gli sforzi teorico-scientifici di trovare un ordine e una realtà al di sotto delle apparenze. Il problema, rispetto alla metapsicologia freudiana, non risiede nella spinta, ma nella vacuità empirica e teorica del risultato — ipotesi non confutabili, concetti pseudoquantitativi e pseudofisicalistici (cfr. Holt, 1976), formulazioni con referenti e significati così imprecisi da poter spiegare tutto e dunque niente, e così via. Questi sono i problemi, non la ricerca di un livello esplicativo più astratto, teorico e onnicomprensivo. La contrapposizione tra teoria clinica e metapsicologia è in realtà uno pseudo-problema. Non ci sono due teorie in psicoanalisi, la teoria clinica e la metapsicologia. È piuttosto un problema di continuum di livelli di astrazione, di esaustività e di forza esplicativa62. (Sulla tensione, in seno alla teoria psicoanalitica, tra le immagini freudiane dell'uomo, meccanicistica e umanistica, cfr. Holt, 1972). LO STATUS EPISTEMOLOGICO DEI DATI CLINICISin dall'inizio, la fusione e la tensione tra obiettivi terapeutici e obiettivi teorici hanno rappresentato una caratteristica centrale della psicoanalisi. Benché la psicoanalisi sia una forma di trattamento, cionondimeno Freud era convinto che il suo posto nella storia fosse assicurato grazie al contributo da essa dato alla comprensione della struttura della mente. E nel corso degli anni ci è stato detto (e ci siamo detti) che la situazione psicoanalitica clinica è una fonte unica, capace di generare dati che contribuiranno a una teoria psicoanalitica della personalità umana — felice convergenza tra obiettivi terapeutici e teorico- esplicativi. Ma qual è lo status epistemologico dei dati clinici derivati dalla situazione psicoanalitica? E quali sono gli impieghi cui essi sono adibiti? Come abbiamo visto, Kohut non esita a fondare le sue formulazioni di natura eziologica su dati clinici, benché sia. molto evidente che ciò che il paziente adulto riferisce sui primi eventi vissuti altro non è che una ricostruzione attuale di ciò che è avvenuto nel passato — con tutte le possibilità di selezione, costruzione e distorsione cui sono soggetti tali ricordi. Così come il racconto di ricordi precoci non costituisce una base sufficiente per affermazioni e formulazioni di natura eziologica, lo stesso avviene per quanto riguarda l'esito terapeutico. Prendiamo un esempio concreto dagli scritti di Kohut. Il fatto che il rispecchiamento empatico da parte del terapeuta promuova un miglioramento terapeutico (e diamo per scontato, per poter proseguire, che questo sia stato dimostrato) non autorizza la conclusione di natura eziologica che una mancanza di rispecchiamento genitoriale abbia svolto un ruolo critico causale nelle attuali difficoltà del paziente. Possono esservi altre ragioni per le quali il rispecchiamento empatico da parte del terapeuta potrebbe svolgere un ruolo positivo. Per ricorrere ad un'analogia: se si riuscisse a dimostrare che la suggestione del terapeuta che il paziente migliorerà ha un'importante funzione terapeutica, se ne dovrebbe forse concludere che fu una mancanza precoce di tali suggestioni ad essere eziologicamente implicata nei problemi attuali del paziente? In generale, per quanto riguarda questo sotto-insieme di formulazioni cliniche che ha a che vedere con l'eziologia i dati clinicamente derivati sono purtroppo insufficienti. Semplicemente non sono sostituti di studi longitudinali, evolutivi e predittivi. Il fatto è che disponiamo di un numero estremamente scarso di prove affidabili sugli effetti generali delle prime esperienze sullo sviluppo successivo, o che indichino che le prime esperienze hanno un ruolo determinante e irreversibile nella formazione della personalità; ancora più scarse sono le prove sugli effetti di fattori specifici come la mancanza di rispecchiamento empa- tico (per esempio Clarke e Clarke, 1976). È perlomeno possibile che la convinzione che le prime esperienze abbiano un ruolo particolare sia parzialmente errata. Siccóme si tratta di una convinzione molto forte e radicata, risalente a dir poco a Platone, è probabile che i dati clinici rispecchino questa credenza, piuttosto che fornirle una conferma significativa. Quando si esaminano in modo sistematico i dati, traendoli da studi ben progettati, non si riscontrano molte prove nette a sostegno di questa convinzione. Si fanno piuttosto scoperte come lo smorzarsi degli effetti delle prime esperienze col trascorrere del tempo; la mancanza di notevole stabilità di alcune caratteristiche psicologiche su lunghi periodi di tempo; l'assenza di disturbi nevrotici nell'adolescenza in oltre la metà dei bambini che avevano mostrato dei disturbi emozionali all'età di dieci anni (Rutter, 1976); in generale, si scopre che si è di fronte a un campo complesso in cui, per raggiungere un certo ordine, è necessario chiarire aspetti quali la natura delle prime esperienze su cui s'indaga, l'area del comportamento o della personalità che si sta studiando (per esempio tratti del temperamento o tratti del contenuto motivazionale [Kohlberg, La Crosse e Ricks, 1972]), nonché se si stiano veramente studiando gli effetti di esperienze prolungate o precoci. Inoltre, anche negli studi ben controllati la conclusione che si tende a trarre riguardo all'importanza delle prime variabili al fine di prevedere il comportamento successivo varierà a seconda che si effettui o no il cosiddetto follow up, o quella che Kohlberg et al. chiamano una indagine di follow back, di risalita all'indietro nel tempo. Per esempio, in uno studio retroattivo di questo genere Robins (1966) ha scoperto che il 75% degli adulti alcolizzati studiati, da giovani avevano marinato la scuola (a confronto del 26% del gruppo di controllo). Tuttavia, utilizzando dati ricavati da un follow up, egli scoprì che l'll% dei bambini che marinavano la scuola da giovani sarebbero stati diagnosticati alcolizzati da adulti (contro l'8% del gruppo di controllo). Naturalmente, questo confronto comporta alcune implicazioni per i limiti eziologici dei dati clinici derivati da una procedura informale di analisi retroattiva. Ma quel che mi preme sottolineare è che comprendere e stabilire gli effetti delle prime esperienze sullo sviluppo successivo della personalità è una operazione incredibilmente complessa e richiede, tra l'altro, l'esame di diverse variabili e di dati affidabili e sistematici. I dati clinici provenienti dalla psicoanalisi (e da altre situazioni terapeutiche) sono ben lontani dal rispondere a queste esigenze. Pertanto se alcune formulazioni, come quella relativa al rapporto tra rispecchiamento empatico precoce e formazione di un Sé coesivo, possono colpire l'immaginazione della comunità psicoanalitica, esse rappresentano nel migliore dei casi ipotesi e speculazioni cui, al momento attuale, manca totalmente il sostegno di prove significative. Considerata la complessità e l'incertezza degli effetti delle prime esperienze e del rapporto tra prime esperienze e sviluppo della personalità adulta, è preoccupante imbattersi in asserzioni perentorie in questo campo, prive di qualsiasi riscontro. Per esempio Stolorow e Lachmann (1980) informano il lettore che «l'assenza di reattività empatica alle esigenze di sviluppo del bambino, gravi incongruenze di comportamento verso il bambino e frequenti esposizioni del bambino a scene sessuali e aggressive affettivamente intollerabili [...] interferiscono con la strutturazione del mondo rappresentazionale, e l'individuo rimane bloccato o vulnerabile a reminiscenze regressive di configurazioni dell'oggetto-Sé arcaiche più o meno indifferenziate e non integrate» (p. 5). Da notare, in questo passo, non solo l'impiego di un gergo e di termini vaghi e indefiniti, ma l'affermazione, non accompagnata da alcuna prova, che questo o quel trauma abbiano particolari effetti sullo sviluppo. Non posso fare a meno di osservare che l'uso di un gergo e di termini vaghi non è, per così dire, un puro e semplice accidente, ma è necessario, nel senso che consente di fare asserzioni senza il sostegno di al.cuna prova — nella misura in cui non chiarisce qual è il tipo di prova che darebbe sostegno, o non riuscirebbe a dar sostegno, all'affermazione riguardante quel presunto rapporto. In altre parole, fintantoché non si sa con precisione cosa significano termini quali «strutturazione del mondo rappresentazionale», e «reminiscenze regressive di configurazioni dell'oggetto-Sé arcaiche più o meno indifferenziate e non integrate», non si può dire che tipo di fenomeni e di osservazioni costituirebbero una prova a favore di, o contro, queste affermazioni. Motivo di sconforto è pure il fatto che in gran parte della letteratura recente le cosiddette caratteristiche del neonato vengono asserite e descritte senza alcun riferimento al corpus di ricerche sui neonati o a qualsiasi altra prova (abbiamo già visto alcune conseguenze di questa tendenza nella precedente analisi dell'opera della Mahler). Per esempio Stolorow e Lachmann affermano che «una [...] caratteristica dell'esperienza del neonato molto piccolo è la sua incapacità d'integrare o sintetizzare rappresentazióni con colorazioni affettive contrastanti» (p. 4). Nessuna prova è offerta a sostegno di questa idea. C'è solo un riferimento a Kernberg. Ma se si va a guardare la fonte, nemmeno lì è addotta alcuna prova a sostegno. Troviamo invece l'affermazione: «I processi di scissione probabilmente cominciano intorno al terzo o quarto mese di vita, raggiungono il massimo fra il sesto e il dodicesimo mese, e gradualmente scompaiono nel secondo anno e nella prima parte del terzo» (Kernberg, 1976, p. 36). Come osserva Spence (1982), gran parte degli scritti psicoanalitici è caratterizzata da continui e frequenti riferimenti ad altre «autorità» che fanno affermazioni simili a quelle dell'autore — ma sempre senza prove. Dopo un certo tempo, queste affermazioni verranno prese come un fatto dimostrato. È come se'il concetto implicito di prova a sostegno fosse la semplice ripetizione e la frequenza di un'asserzione. Ma a parte l'eziologia, che ne è delle formulazioni teoriche generali che hanno a che vedere con le diagnosi attuali e le dinamiche attuali? Anche qui credo si possa dimostrare che, del tutto all'opposto rispetto alle affermazioni della maggior parte degli autori psicoanalitici, i dati derivati dalla situazione psicoanalitica clinica rappresentano, nel migliore dei casi, delle prove problematiche. In altre parole, se possono avere un valore euristico e, come osserva Kubie (1975), possono rappresentare una ricca fonte per la generazione di ipotesi, esse hanno scarso valore probativo per quanto riguarda la verifica di queste ipotesi (cfr. Grünbaum, 1980; 1982). Cominciamo con una recente osservazione di Gedo (1980), secondo cui mentre i seguaci di Kohut hanno «scoperto» ampie prove di disturbi del Sé nel materiale prodotto dai pazienti, gli analisti del New York Psychoanalytic Institute, affrontando casi che sembravano presentare costellazioni molto simili, hanno trovato prove altrettanto ampie della presenza di conflitti edipici, e nessuna apparente indicazione di disturbi del Sé. Altri esempi analoghi si possono trovare nella letteratura psicoanalitica. E poiché i dati nella situazione clinica sono spesso poco chiari riguardo a temi come le motivazioni inconsce, i conflitti e i disturbi del Sé che si ritiene essi rivelino, e richiedono una chiarificazione interpretativa, è evidente che le convinzioni teoriche del terapeuta saranno un fattore determinante e critico del modo in cui questi dati verranno interpretati. L'influenza delle convinzioni teoriche sul significato e l'importanza attribuiti alle osservazioni non è certo peculiare della situazione psicoanalitica. Ma ciò che accresce il problema nel caso della situazione clinica è lo status particolare, epistemo- logicamente contaminato, dei dati. In altre parole, attraverso la suggestione, attraverso tutta una gamma di stimoli di rinforzo sottili e selettivi, il terapeuta può contribuire a generare proprio quei dati citati a sostegno di questa o di quella interpretazione teorica. Come spiegare altrimenti il fatto che ciascun terapeuta sembra produrre dati in sintonia con la propria posizione teorica? Come spiegare altrimenti il fatto che — come sottolineano Marmor (1962) e altri — i pazienti sembrano provare quel tipo di «insight» che corrisponde all'orientamento teorico del terapeuta? Parlando delle «teorie radicalmente divergenti» della psicoanalisi, Marmor scrive: «Il fatto è che i pazienti trattati dagli analisti di tutte queste scuole [...] sono fermamente convinti delle intuizioni che sono state loro trasmesse [...] dipendendo dal punto di vista dell'analista, il paziente di ciascuna scuola sembra produrre proprio quel tipo di dati fenomenologici che confermano le teorie e le interpretazioni del proprio analista! Così ciascuna teoria tende ad autoconvalidarsi. I freudiani producono materiale relativo al complesso edipico e all'angoscia di castrazione, gli junghiani materiale relativo agli archetipi, i rankiani materiale relativo all'angoscia di separazione, gli adle- riani materiale relativo alla mascolinità e al senso d'inferiorità, i seguaci della Horney materiale relativo alle immagini idealizzate, quelli di Sullivan materiale relativo ai rapporti interpersonali disturbati, e così via» (p. 289). Come evidenziano Masling e Cohen in un recente scritto inedito, «sin dall'inizio della terapia alcune aree di contenuto vengono rinforzate in modo esplicito e implicito, altre no» (pp. 6-7). Questi autori riportano una serie di studi che indicano che il materiale prodotto dal paziente è notevolmente influenzato dai rinforzi sottili, e il più delle volte inconsapevoli, del terapeuta. Per esempio Murray (1956), analizzando una registrazione nella quale il terapeuta era Rogers, ha dimostrato che 68 affermazioni del paziente riguardo l'autonomia ricevevano una sottile approvazione, e nessuna di esse veniva disapprovata. All'opposto, 16 affermazioni del paziente riguardo al sesso incontravano disapprovazione, e solo 2 approvazione. Al termine della terapia il paziente era completamente preso dal tema dell'autonomia e sembrava non esserlo affatto da quello del sesso. Truax (1966) ha sostanzialmente replicato le scoperte di Murray. Un'interazione con un paziente che illustra questo tipo di rinforzo è riferita da Greenson (1967): Egli era sempre stato repubblicano (cosa che sapevo) e negli ultimi mesi aveva cercato di assumere il punto di vista più progressista, dacché sapeva che questa era la mia tendenza. Gli chiesi come sapeva che io fossi progressista, e quindi antirepubblicano. Mi disse allora che, ogni volta che diceva qualcosa di positivo riguardo a qualche uomo politico repubblicano, gli chiedevo sempre di associare, mentre quando diceva qualcosa di ostile nei confronti di un repubblicano io restavo zitto, come se appunto fossi d'accordo. Quando parlava bene di Roosevelt, non dicevo niente, mentre se lo attaccava io gli chiedevo che cosa gli facesse venire in mente Roosevelt, come se io fossi assolutamente certo che si potesse odiare Roosevelt solo a causa di atteggiamenti infantili. Io rimasi di stucco, in quanto non mi ero mai accorto di questo mio comportamento. Però, quando il paziente me lo fece notare, dovetti convenire che mi ero comportato esattamente così, anche se del tutto inconsapevolmente (p. 228). . Questi dati, chiaramente di sostegno, vengono presi come una conferma di quella stessa posizione teorica che, come rivela un esame più ampio, ha in larga misura contribuito a generare questi dati. In altre parole, un esame di questi fenomeni indica che il rinforzo, la suggestione e l'acquiescenza, per quanto sottili e complessi, sono fattori cruciali nel produrre questi presunti dati di conferma. Inoltre il materiale più ambiguo, se interpretato in sintonia con la propria posizione teorica, è anch'esso considerato un dato di conferma. Se pertanto il materiale prodotto dal paziente è sufficientemente ambiguo, ciascun terapeuta, quale che sia la sua posizione teorica, può emettere il verdetto per cui esso costituisce una conferma. A questi problemi si può rispondere sostenendo che tutte le osservazioni dei fatti sono, per dirla con Popper (1982), impregnate di teoria. Ma questa non è una risposta adeguata, e Per molte ragioni. In altre discipline, i dati non sono altrettanto poco chiari, rendendo così più ristretti i margini dell'interpretazione di quel che si osserva. Osservatori di orientamento teorico diverso tenderanno di più ad essere d'accordo su questioni di fondo quali il fatto che x si sia verificato o meno. Per esempio, in uno studio sulla memoria vi sarà consenso generale tra gli osservatori sul fatto che un particolare elemento di stimolo sia stato o no ricordato, benché questi osservatori possano pensarla diversamente sui processi della memoria stessa. Nella situazione non clinica, vi è un più pieno riconoscimento del problema della distorsione selettiva, e — fatto più importante — la conseguente attuazione di misure di salvaguardia standardizzate (per esempio studi del tipo «doppio cieco», gruppi di controllo) che costituiscono un mezzo ragionevolmente efficace per affrontare questo problema. Tali misure di salvaguardia non sono presenti nella situazione clinica tipica. La caratteristica peculiare dell'interazione umana è che spesso, consapevolmente o inconsapevolmente, si possono attivare negli altri le reazioni che si vogliono attivare — vale a dire le reazioni che sono in sintonia con le proprie aspettative e i propri desideri. L'evidenza della distorsione dello sperimentatore suggerisce che questo è un problema presente anche nella situazione sperimentale (per esempio Rosenthal, 1963) e va affrontato in svariati modi. Si immagini quante maggiori probabilità esso ha di caratterizzare la ricca interazione carica di affettività della situazione clinica. Se, forse, non è possibile evitare le distorsioni teoriche, come sostiene la von Eckard t (1981) citando l'opera di Scheffler (1967) e di Giere (1979), «l'ideale dei dati oggettivi è possibile perlomeno in questa misura: i dati rilevanti per una data teoria T possono essere raccolti da una persona sia che essa creda sia che non creda in T, o anche, che sia o non sia a conoscenza di T» (p. 572). L'autrice prosegue poi sottolineando l'affermazione di Giere secondo cui un buon test scientifico «deve essere un'affermazione la cui verità o falsità deve poter essere stabilita in modo affidabile utilizzando dei metodi che non presuppongono che l'ipotesi in questione è vera» (p. 95). Ma queste sono proprio le condizioni violate dalla maggior parte dei dati clinici — certamente di quelli raccolti, interpretati e valutati dal terapeuta stesso. Ciò vale malgrado tutti i discorsi sul fatto che il terapeuta formi e verifichi delle ipotesi in seno alla seduta terapeutica. Quando mai un analista freudiano ha sottoposto a verifica l'ipotesi che il paziente nevrotico non ha alcun conflitto edipico, o quando mai un analista seguace di Kohut ha verificato l'ipotesi che un paziente narcisista non presenta alcun significativo disturbo del Sé, o non ha ricevuto un adeguato rispecchiamento empatico da bambino? Quando mai un analista junghiano ha verificato l'ipotesi che il suo paziente non abbia un inconscio collettivo? Anche se tutte queste ipotesi potessero essere verificate, resta il fatto che tali verifiche nella situazione clinica ricorrono a metodi e comportano assunti che, esattamente all'opposto di quanto suggerisce Giere, «presuppongono che l'ipotesi in questione sia vera». Concetti come quelli di conflitti edipici, disturbi del Sé e inconscio collettivo sono assunti come veri dai loro rispettivi seguaci e utilizzati per interpretare dati ambigui e non trasparenti. Alla luce delle precedenti considerazioni non sono d'accordo con Sand (1981), là dove afferma che le formulazioni cliniche della psicoanalisi sono, al pari di formulazioni simili nelle scienze naturali, delle generalizzazioni empiriche induttivamente stabilite e, di conseguenza, del tutto indipendenti dalla metapsicologia e da qualsiasi «teoria superiore», nella misura in cui quest'ultima «non ha alcun potere di alterare generalizzazioni basate sull'osservazione di dati di fatto» (p. 178). Dato che almeno alcune delle generalizzazioni della teoria clinica si basano su dati contaminati, non è affatto chiaro se sono state stabilite in modo induttivo o «basato sull'osservazione di dati di fatto». In realtà, sono spesso una metapsicologia camuffata sotto le vesti di formulazioni cliniche. Consideriamo il concetto clinico centrale di desiderio inconscio. Come suggerisce Holt (1976), il legame tra desiderio inconscio e concetto di istinto o pulsione non deriva direttamente dall'esperienza clinica, ma si basa su presupposti teorici riguardo alla natura dell'organismo. Inoltre, poiché il comportamento manifesto è poco trasparente riguardo ai desideri inconsci ad esso soggiacenti (se fosSe trasparente, l'interpretazione non sarebbe necessaria), è probabile che i desideri inconsci operativi che si presume siano presenti in qualsiasi caso particolare saranno, almeno in parte, funzione dei concetti teorici del terapeuta sulla natura umana, e dei suoi concetti sul tipo di desideri che una qualsiasi persona tenderà ad avere. Così la sensibilità degli analisti freudiani ai desideri inconsci di natura sessuale e aggressiva è intimamente legata a una sovrastruttura di concetti teorici e di idee, ivi compresa la teoria delle pulsioni, la rimozione, lo sviluppo sessuale, la sublimazione, nonché a un modello del sistema nervoso come eccitazione e scarica. Non è semplicemente questione di osservare i «dati di fatto» comportamentali di natura sessuale e aggressiva, ma di interpretare un comportamento ambiguo o non trasparente come di natura sessuale o aggressiva. E in effetti, talvolta — è il caso della sublimazione — un comportamento manifestamente non sessuale e non aggressivo è cionondimeno collegato a desideri sessuali e aggressivi trasformati. Allo stesso modo, la sensibilità per i disturbi del Sé e la loro «osservazione» da parte di Kohut e dei suoi seguaci non è semplicemente una questione di «dati di fatto» osservati, ma si basa su interpretazioni fondate esse stesse su tutto un insieme di assunti teorici riguardo alla natura dello sviluppo psicologico (che, tra l'altro, comprende un rifiuto di quegli stessi assunti che permettono agli analisti freudiani di «vedere» onnipresenti nel comportamento desideri sessuali e aggressivi). La continua insistenza sul primato della situazione psicoanalitica clinica come fonte primaria di dati e la riluttanza ad uscire da questa situazione può evere avuto un effetto deleterio non solo sulla costruzione della teoria psicoanalitica, ma anche sullo sviluppo della terapia psicoanalitica. So bene che questa mia affermazione è contraria alla concezione predominante, ma lasciatemi spiegare le ragioni di questa posizione. Come ho già detto, tradizionalmente la situazione psicoanalitica è stata considerata tanto per il suo valore di ricerca che per il suo valore terapeutico. Si asseriva che costituisse una fonte unica di dati per la comprensione della struttura delle motivazioni, dei desideri, delle difese dell'essere umano, insomma per capire la struttura della mente umana e del funzionamento della personalità. La convinzione che la situazione psicoanalitica rappresenti una fonte di dati particolare (e, per alcuni, l'unica fonte legittima) per valutare le formulazioni psicoanalitiche può portare a un'ambiguità riguardo alla giustificazione del trattamento psicoanalitico. Esso si giustifica prevalentemente per la sua efficacia terapeutica, o per via dei dati peculiari che — si asserisce — permettere di ottenere? È possibile che un interesse per quest'ultimo aspetto sia razionalizzato mediante un'affermazione riguardante il primo? Se la psicoanalisi come trattamento si giustifica per la sua efficacia terapeutica (più che per il suo valore di ricerca), non dovrebbe essere valutata mediante studi rigorosi sugli esiti ottenuti? Alcuni autori scrivono come se il loro punto d'interesse primario fosse costituito dai fenomeni generati dalla situazione psicoanalitica. Essi spesso motivano questa posizione affermando che la situazione psicoanalitica è una situazione particolare, diversa sotto importanti aspetti dalla maggior parte delle altre interazioni umane. Ciò che sembrano perdere di vista è che la situazione psicoanalitica è o dovrebbe essere interessante solo nella misura in cui getta luce su questioni quali la psicopatologia, il funzionamento della personalità e il trattamento. Se i dati psicoanalitici sono particolari, questa loro presunta particolarità è probabilmente tanto un limite quanto un pregio. Infatti la situazione psicoanalitica e i dati che essa genera hanno una loro significatività solo nei termini del contesto più ampio al quale additano. A questo punto vanno formulati alcuni giudizi chiari e semplici, nonché demistificanti. La situazione psicoanalitica è soprattutto una situazione terapeutica, più che un insieme di dati per formulazioni di natura eziologica o anche per teorie sullo sviluppo della personalità. Le domande più pertinenti da rivolgere a questa situazione hanno a che vedere, innanzitutto, con l'esito — che tipo di cambiamenti e di effetti produce questa forma di intervento? — e in secondo luogo coi processi soggiacenti ai diversi risultati. Essa è soggetta a una valutazione sistematica come qualsiasi altra forma d'intervento, e non può, a priori, essere assiomaticamente considerata più efficace, più duratura e più profonda di altre terapie. Malgrado le continue affermazioni contrarie, non vi sono prove convincenti a sostegno di tutta quella gamma di asserzioni per cui la psicoanalisi classica è 1'«oro puro» della psicoterapia, l'unica forma d'intervento terapeutico che eviti la sostituzione del sintomo e produca un cambiamento strutturale della personalità. Al loro posto abbiamo affermazioni prevalentemente non sostanziate, basate sulla logica implicita secondo cui la psicoanalisi è l'unica terapia che generi cambiamenti strutturali, perché così dice la soggiacente teoria (riguardante la rimozione, l'insight, il rendere conscio l'inconscio, e così via). Studi controllati sugli esiti sono esclusi, a favore di affermazioni e proclami. È degno di nota il fatto che, anno dopo anno, si tengano conferenze e vengano presentate pubblicazioni sui «fattori della guarigione nella psicoanalisi» accompagnati da pochissime preziose prove sistematiche — al di là delle esperienze e delle impressioni personali presentate nei casi clinici — riguardo all'esito del trattamento. A cominciare dal congresso di Marienbad del 1934, il dibattito si è acceso intorno al ruolo relativo che nella guarigione hanno l'insight, l'introiezione e altri fattori, senza che apparentemente ci si rendesse conto che per studiare i fattori che intervengono nella guarigione si deve prima di tutto dimostrare in misura affidabile che una guarigione è avvenuta (o è avvenuto il suo equivalente). È come se il dibattito si arrestasse dinanzi alla domanda — e qui si ha un esempio di confusione tra interessi terapeutici e interessi della ricerca — su quali sarebbero o dovrebbero essere i fattori legati alla guarigione, secondo questa o quella teoria, senza preoccuparsi della questione empirica: la guarigione avviene, o no? Questo approccio è scolastico, al punto da essere medioevale. Ricorda uno di quei racconti (forse di Francis Bacon?) di monaci che discutono, su basi puramente teoriche, del numero di denti che ha in bocca il cavallo. Quando un novizio suggerisce di esaminare la bocca del cavallo, viene sonoramente redarguito per la sua manifesta mancanza di rispetto. In senso lato, l'aspetto più importante per la psicoanalisi in quanto situazione terapeutica è lo sviluppo di una coerente teoria della terapia, che si basi non solo su una teoria psicoanalitica della personalità o su una psicopatologia, ma anche su affidabili dati empirici che individuino le interazioni e gli interventi efficaci per particolari obiettivi, nonché i processi cui va ascritta l'eventuale efficacia ottenuta. Quali che siano la collaterale teoria della personalità e il collaterale concetto della natura umana, l'approccio psicoterapeutico deve reggersi o cadere sui propri risultati pragmatici. La psicoanalisi come terapia non si giustifica sulla base dei suoi collegamenti con la teoria psicoanalitica della personalità (e questo vale per qualsiasi altro approccio terapeutico), né si giustifica sulla base della peculiarità della situazione psicoanalitica o dei dati particolari che essa genera. In quanto terapia, e come qualsiasi altra terapia, essa può essere giudicata solo sulla base dei risultati ottenuti e del suo contributo a una teoria del cambiamento. Inoltre — ed è l'aspetto più importante — i dati provenienti dalla situazione terapeutica possono offrire un contributo primario non a una teoria eziologica della psicopatologia o a una teoria dello sviluppo della personalità, bensì a una teoria della terapia, ossia alla comprensione del rapporto tra alcuni tipi di operazioni e interventi e il verificarsi o il non verificarsi di cambiamenti specifici di un certo tipo. A me sembra ironico che alcuni autori cerchino di impiegare i dati clinici per quasi tutti i fini, tranne che per il fine per il quale essi sono più adeguati: la valutazione e la comprensione del cambiamento terapeutico. LA PSICOANALISI COME ERMENEUTICAPassiamo ora ad esaminare brevemente le concezioni oggi correnti della psicoanalisi come disciplina ermeneutica, interessata unicamente all'interpretazione e alla decifrazione di significati (cfr. per esempio Ricoeur, 1970; Radnitzky, 1973; Schäfer, 1976; Steele, 1979). Non ho ancora incontrato, nelle varie esposizioni e difese della posizione ermeneutica, un qualsiasi tentativo riuscito di spiegare il problema, elementare ma non certo eludibile, dell'affidabilità, nonché quello ad esso connesso dei criteri della conoscenza. In altre parole, se la mia interpretazione, o il significato da me decifrato, o la mia comprensione empatica sono radicalmente diversi dai tuoi, anzi li contraddicono, sull'empatia o sull'interpretazione di chi si dovrà appoggiare la conoscenza? Se — come abbiamo visto — un seguace di Kohut e un analista del New York Psychoanalytic Institute appellandosi entrambi all'empatia affermano di aver raggiunto ciascuno la conoscenza che le basi primarie dei problemi del paziente sono, rispettivamente, i disturbi del Sé e i conflitti edipici, su quale fondamento potremo dirimere questa controversia? L'incapacità di dare una risposta adeguata a questa semplice ma fondamentale domanda è comune a tutte quelle posizioni — siano esse definite ermeneutica o verstehen — che sono caratterizzate dal forte rilievo dato all'interpretazione, al significato e ai mezzi empatici o intuitivi di conoscenza. A mio avviso, il fatto che di recente alcuni psicoanalisti abbiano abbracciato le posizioni ermeneutica, prospettivistica (per esempio Schäfer, 1976; Steele, 1979) e altre simili si basa in parte sulla sfiducia nella possibilità delle formulazioni psicoanalitiche di affrontare questo problema. Si direbbe che al fondo ci sia, implicito, questo ragionamento: se non è possibile stabilire criteri adeguati per valutare l'esattezza di interpretazioni e formulazioni cliniche, l'unica cosa che resta da fare è dichiarare irrilevante l'intera questione, adottando una posizione ermeneutica o prospettivistica. Infatti, secondo questo punto di vista (almeno nella sua versione relativistica estrema), poiché interpretazioni e formulazioni diverse altro non sono che costruzioni tese semplicemente a fornire prospettive diverse e utili, la questione dell'affidabilità può essere accantonata69. Ammettiamo che nel contesto clinico-terapeutico il problema dell'affidabilità possa essere effettivamente accantonato, nella misura in cui un'ampia gamma di interpretazioni o, per dirla con Fingarette (1963), di «schemi di significato», riceve «intuizioni» (Marmor, 1962) di conferma, sicché ognuna di queste interpretazioni può avere tendenzialmente la medesima efficacia. È anche possibile che la pratica di offrire una qualche interpretazione sia da considerare, in parte o principalmente — come suggeriscono Bergin e Lambert (1978) — solo uno strumento per far operare i fattori veramente terapeutici (che, secondo questi autori, hanno a che vedere con fattori personali e di rapporto). Questo è di un qualche conforto per chi assume la posizione prospettivistica o ermeneutica: sembra infatti appoggiare la tesi che le interpretazioni psicoanalitiche non fanno altro che fornire una nuova prospettiva, o «schema di significato», e che prospettive diverse e interpretazioni diverse siano ugualmente «valide» in vista di alcuni obiettivi (terapeutici). Se però s'indaga più a fondo e ci si chiede su quali elementi concreti si fornisce al paziente una nuova prospettiva, se è possibile valutare prospettive diverse, e in caso affermativo su quali basi sia possibile farlo, le difficoltà della posizione prospettivistica diventano più manifeste. Il tentativo di rispondere a simili domande ci riporta ai problemi di validità ed efficacia, che, scacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. In altre parole, ci viene spesso detto che interpretazioni diverse offrono prospettive diverse su una qualche verità più ampia (ed ecco entrare in gioco il criterio di validità) e/o che prospettive diverse differiscono anche per il modo in cui si rivelano utili (ed ecco entrare in gioco il criterio di efficacia). Nessuna delle due affermazioni è affrontata in maniera sistematica, viene solo asserita. Ciò significa che rimane impregiudicato se di fatto interpretazioni diverse avanzino o no una qualche pretesa per una qualche verità grande o piccola che sia; e invece è proprio questo il problema che rimane da risolvere. Lo stesso vale quanto al modo in cui l'interpretazione esercita la sua utilità: anche questo problema rimane ovviamente da risolvere. Il fatto che si fornisca una nuova prospettiva non garantisce che essa abbia alcuna utilità. Così pure, il fatto che interpretazioni diverse derivanti da prospettive teoriche diverse producano tutte delle «intuizioni» di conferma non significa necessariamente che esse costituiscano tutte aspetti di una verità più ampia. Se mai questo è un argomento a sostegno dell'importanza e dell'operatività di fattori come l'acquiescenza del paziente, e induce a credere che la situazione e i dati clinici sono insufficienti per valutare la validità delle interpretazioni. Tuttavia, anche se la posizione prospettivistica dovesse assumere una certa limitata validità nel contesto di una discussione sulla efficacia terapeutica delle interpretazioni, c'è da rilevare che l'appiglio principale per gli argomenti ermeneutici e pro- spettivistici è dato dalla pretesa che le discipline ermeneutiche (delle quali la psicoanalisi sarebbe un esempio) costituiscono dei mezzi particolarmente adatti per arrivare a intuizioni e verità sul comportamento e l'esperienza umana. Esse in pratica costituirebbero una sorta di struttura delle «scienze umane» o, nella terminologia di Dilthey (1883), di Geisteswissenschaften (scienze dello spirito), che stanno alla conoscenza dell'uomo così come le scienze della natura o Naturwissenschaften stanno alla conoscenza della natura. Il fatto che prospettive alternative o interpretazioni diverse — ivi comprese magari quelle manifestamente false e che possono essere dimostrate tali — possano essere terapeuticamente efficaci, diffìcilmente può essere di conforto o anche di un qualche interesse per chi nutre ambizioni più vaste. Inoltre, rimanendo sempre nel contesto terapeutico, per determinare l'efficacia terapeutica di prospettive e interpretazioni diverse (in realtà, per determinare se esse abbiano un qualche grado di efficacia) si richiede proprio quel tipo di studi controllati che generalmente vengono elusi dagli ermeneuti70. E i dati forniti da questi studi contribuirebbero a una teoria dell'efficacia terapeutica (l'autonoma teoria della terapia cui ho fatto riferimento in precedenza) la quale sarebbe poi soggetta a valutazione (ossia a confutazione, o a maggiore o minore conferma) così come qualsiasi altra teoria. Le si potrebbero rivolgere le stesse domande che si indirizzano a qualsiasi altra teoria, vuoi nelle scienze naturali, vuoi in quelle sociali — domande aventi a che fare con la capacità della teoria stessa di predire, di confrontarsi con altre teorie, di chiarire processi soggiacenti fondamentali e spiegare così una vasta gamma di fenomeni. Ora, nella misura in cui si effettui una tale valutazione e nella misura in cui la teoria elaborata sia abbastanza precisa da essere suscettibile di una tale valutazione, la posizione ermeneutica viene lasciata alle spalle e diventa irrilevante. Oppure, per dirla in altro modo, posto che prospettive e interpretazioni diverse siano ugualmente efficaci, le spiegazioni teoriche del perché esse siano ugualmente efficaci (o, nel caso del perché non siano altrettanto efficaci o del perché siano irrilevanti rispetto alla questione dell'efficacia), e la valutazione di queste spiegazioni teoriche si pongono già al di là delle questioni sollevate dalla posizione ermeneutica71. Di conseguenza, né come teoria né come terapia (o teoria della terapia), e neppure in termini di veridicità o di efficacia (o di teoria dell'efficacia) è utile concepire la psicoanalisi come disciplina ermeneutica. Tornando per un attimo al contesto clinico, la posizione secondo cui praticamente qualsiasi «schema di significato» o «ricostruzione» plausibile è efficace suggerisce un paradosso o almeno un'ironia che vanno affrontati. Qualsiasi cosa si possa infatti dire negli scritti teorici su «ricostruzioni» e «costruzioni», il fatto è che la maggior parte dei terapeuti compie uno sforzo autentico per capire i propri pazienti, ossia per afferrare ciò che sta veramente avvenendo e qual è la natura del caso. Inoltre mi sorge il dubbio che la maggior parte dei terapeuti, quale che sia la loro posizione filosofica, sia convinta che le proprie interpretazioni e formulazioni descrivano in modo valido i loro pazienti, e non siano semplicemente delle plausibili «ricostruzioni». Ho anche il forte sospetto che se chi assume una posizione prospettivistica (e pertanto professa di non credere in questo) dovesse far intervenire la propria posizione filosofica nel contesto in cui opera come terapeuta, la sua efficacia terapeutica ne sarebbe inficiata. Va notato che l'idea che una vasta gamma di «schemi di significato» o «ricostruzioni» plausibili siano ugualmente efficaci è un'ipotesi che attende ancora una verifica. Benché tutti i pazienti possano riferire di «intuizioni» a conferma del particolare orientamento teorico del terapeuta, da questo non segue necessariamente che tutte le interpretazioni abbiano la stessa efficacia, né segue che sia necessaria per l'efficacia terapeutica un'elaborata «ricostruzione» che rimetta insieme tutti i pezzi della vita del paziente (il criterio di esaustività di Sherwood [1969]). La mia opinione personale è che innanzitutto interpretazioni più esatte hanno maggiore probabilità di essere efficaci — in altre parole, una qualche versione dell'affermazione freudiana secondo cui le interpretazioni che «collimano con la realtà» sono le migliori; e in secondo luogo, che l'importanza delle «ricostruzioni» a fini di elaborazione è stata troppo accentuata. Dovrei tuttavia chiarire che l'esattezza delle interpretazioni non è definita tanto secondo la reazione del paziente (per esempio conferma contro rifiuto, natura delle associazioni successive, e così via), quanto da criteri quali: l'interpretazione è in sintonia con ciò che si sa della sindrome da cui è affetto il paziente? è in sintonia con taluni temi centrali cui sono di fronte molti pazienti? ed è più in sintonia con la natura della condizione umana? Per esempio, come si è prima visto, io credo che l'interpretazione dell'agorafobia in termini di separazione- individuazione sia probabilmente non solo più esatta, ma anche più efficace delle interpretazioni in termini di fantasie di prostituzione o di adescamento per la strada. Il «sapore» individuale o personale dell'interpretazione, a mio avviso, deriva non dall'intelligenza o unicità o esaustività della «ricostruzione» o della «costruzione» (ossia, da quanto la «ricostruzione» riesce a collegare insieme una vasta gamma di eventi o di ipotesi dinamiche), ma dall'atteggiamento e dallo stile del terapeuta — ovvero da fattori quali la sua capacità di ascoltare, di esporre le proprie interpretazioni nei termini delle esperienze e delle emozioni concrete del paziente, di esprimere autentico interesse e preoccupazione, mantenendo tuttavia una neutralità tecnica che eviti di farlo schierare da una parte o dall'altra di un conflitto. Il fatto è che, come sottolinea Levenson (1982), ogni comunicazione ha una sua pragmatica, oltre che una sua semantica. In particolare, in terapia comunichiamo tanto mediante ciò che siamo, e il modo e lo stile che emanano da ciò che siamo, quanto tramite ciò che diciamo. Sarebbe utile, a mio avviso, adottare il concetto di Winnicott (1965) di «maternage sufficientemente buono» per la situazione terapeutica, e accettare l'idea di una «interpretazione sufficientemente buona». Una «interpretazione sufficientemente buona» è quell'interpretazione che è in sintonia con ciò che si conosce in modo generale e affidabile su una data sindrome; che non è in conflitto con ciò che è noto circa la natura umana; che esprime in svariati riferimenti le esperienze e gli interessi specifici e concreti del paziente; e che è presentata in maniera tale da trasmettere in modo autentico, ad almeno qualche livello, premura, interesse ed empatia. Là dove molte interpretazioni — magari la maggior parte — presentano coerenti «schemi di significato», «ricostruzioni», «costruzioni» e «prospettive» interessanti, si deve tuttavia dire che non sono «sufficientemente buone» se non rispondono ai criteri sopracitati. Per esempio, credo che un'interpretazione terapeutica in termini di «archetipi» o di «inconscio collettivo» se da una parte fornisce uno «schema di significato», dall'altra non è «sufficientemente buona» perché è intrinsecamente impersonale, e necessariamente ha a che vedere più con una costruzione intellettuale che con le esperienze, le preoccupazioni e le lotte di una data persona. In questo senso ha a che vedere più col terapeuta che con qualsiasi paziente particolare. Inoltre, è del tutto isolata da ciò che si conosce in modo affidabile sia su una data sindrome particolare, sia sulla natura umana. Un punto centrale che vorrei sottolineare nel suggerire il concetto di interpretazione «sufficientemente buona» è che è possibile attingere a dati e conoscenze affidabili esterni alla situazione clinica per elaborare interpretazioni cliniche che siano veridiche in grado «sufficientemente buono». Quanto poi a sapere se tali interpretazioni siano più efficaci — se sia possibile cioè confermare la convinzione di Freud che la verità e l'efficacia sono intrinsecamente collegate — questo, ripeto, attende ancora una verifica empirica. Psicoanalisi e storiaUna variante della posizione ermeneutica afferma che la psicoanalisi è una disciplina storica nel senso attribuito alla natura di queste discipline da Collingwood (1956). Esaminiamo brevemente la validità di questa posizione. In un recente affascinante scritto, Blight (1982) ha riconosciuto — ma dovrei forse dire concesso — che la psicoanalisi è una disciplina storica dal momento che esiste un'analogia tra i tentativi dell'analista di ricostruire le esperienze della vita del paziente e il tentativo dello storico di ricreare motivazioni ed esperienze di figure storiche. L'autore si oppone poi all'idea tradizionale di una «grande scissione» tra discipline storiche e scienze naturali (tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften), fiducioso che la scoperta e la consapevolezza dell'esistenza di elementi comuni in tutte le indagini critiche scoraggerà il ricorso all'ermeneutica da parte dei teorici della psicoanalisi. Vedo senz'altro con simpatia gli obiettivi di Blight, ma per me egli concede un po' troppo. Intanto, la sua disponibilità a classificare la psicoanalisi tra le discipline storiche si basa su un'implicita equiparazione della psicoanalisi alla terapia psicoanalitica. Non è affatto chiaro che la teoria psicoanalitica sia una disciplina storica così come è concepita da Collingwood. La sua ambizione non è semplicemente di chiarire gli eventi individuali senza attenzione al problema della generalizzabilità. Al contrario, la struttura della teoria psicoanalitica può essere considerata un insieme di proposizioni che, in forma generale, non è diverso da altre formulazioni teoriche nelle scienze sociali e naturali. Anche se si limita l'esame alla terapia psicoanalitica, esistono importanti differenze, oltre che somiglianze, tra la psicoanalisi e le discipline storiche. È vero che sia nell'indagine storica che nella terapia psicoanalitica si assiste al tentativo di ricostruire degli eventi, di capire le esperienze e le motivazioni delle persone, di elaborare una «ricostruzione» e di decifrare dei significati. Ma la terapia psicoanalitica costituisce un trattamento e un intervento concreto e, come abbiamo visto, in tal modo si trova immediatamente di fronte alle questioni dell'efficacia e dell'affidabilità. In questo contesto, qualsiasi comprensione si raggiunga è (o dovrebbe essere) al servizio dell'efficacia terapeutica e dell'elaborazione di un'adeguata teoria dell'efficacia terapeutica. Inoltre, nel contesto clinico, è la risposta del soggetto alle proprie interpretazioni di queste interpretazioni a definire le questioni dell'affidabilità e dell'efficacia. Rendersi conto di ciò rende immediatamente chiaro che, a differenza dell'indagine storica, nel contesto clinico le interpretazioni sono soprattutto interventi. La discussione originaria ha avuto inizio con una distinzione tra il contesto clinico-terapeutico da una parte, e le teorie della patologia (ivi compresa l'eziologia) e dello sviluppo della personalità dall'altra. Ho cercato di dimostrare che la fusione dei due contesti ha generato una certa confusione. Ciò che emerge da un esame del contesto clinico-terapeutico è un'altra distinzione ancora, che, trascurata, ha portato anch'essa a un certo grado di confusione. Questa ulteriore distinzione è quella tra le interpretazioni fornite nella situazione clinica (o le «ricostruzioni» elaborate per guidare queste interpretazioni) da una Parte, e, dall'altra, una valutazione dell'efficacia di queste interpretazioni, nonché una valutazione teorica del grado di efficacia ottenuto, qualunque esso sia. Se le interpretazioni possono anche somigliare, per taluni aspetti, a resoconti storici o ad attività ermeneutiche, la misura della loro efficacia, come pure le spiegazioni teoriche del grado di efficacia raggiunto non sono affatto Paragonabili a resoconti storici o ad attività ermeneutiche. Assomigliano piuttosto a resoconti teorici delle scienze naturali e sociali. Un altro esempio del tentativo di caratterizzare la psicoana- "si come disciplina sostanzialmente storica, lo si ritrova nel libro di Sherwood (1969) La logica della spiegazione psicoanalitica. Sherwood afferma che il modo migliore di considerare la spiegazione psicoanalitica è vederla come una «ricostruzione» (della storia e delle dinamiche del paziente). Sensibile al problema dell'affidabilità della conoscenza, Sherwood suggerisce, come criteri per valutare le «ricostruzioni» psicoanalitiche, l'adeguatezza, l'esaustività e l'esattezza. In un commento estremamente rivelatore, Sherwood nota che l'adeguatezza, l'esaustività e l'esattezza della «ricostruzione» non necessariamente devono avere un qualche rapporto sistematico con la teoria psicoanalitica generale. Altrove ho cercato di esaminare in dettaglio la validità dello schema di Sherwood (Eagle, 1973). Il punto su cui vorrei qui richiamare l'attenzione del lettore è la confusione tra prospettive terapeutiche e teoriche evidenziate nelle formulazioni di Sherwood. Da una parte, l'unità descrittiva di base da lui suggerita — la «ricostruzione» psicoanalitica — è evidentemente adeguata al contesto clinico-terapeutico, e anzi è tratta da esso. Dall'altra, i criteri da lui proposti per la valutazione di queste «ricostruzioni» poco hanno a che vedere col contesto clinico, e sono più adeguati a valutare materiale teorico. Inoltre (e questo è l'aspetto più notevole) il criterio più adeguato al contesto clinico — l'efficacia terapeutica — non è nemmeno incluso tra i criteri di valutazione. Perché dovremmo elaborare una «ricostruzione» adeguata, esaustiva ed esatta riguardo a una persona, se non nella convinzione che una tale «ricostruzione» svolga in qualche modo un ruolo critico nella situazione terapeutica? (Abbiamo visto che secondo Sherwood la «ricostruzione» individuale non necessariamente deve avere un rapporto sistematico con la teoria generale della psicoanalisi.) Sulle orme di Freud, Sherwood sembra assumere implicitamente che una «ricostruzione» veridica sarà anche di necessità terapeuticamente efficace e, pertanto, si preoccupa dell'esattezza di questa «ricostruzione». Ma naturalmente l'efficacia non può essere solo data per scontata. Inoltre, al fine di stabilire se efficacia e veridicità sono o no strettamente collegate, bisognerebbe stabilire cosa significhino veridicità ed efficacia, e questo indipendentemente l'una dall'altra. La psicoanalisi è una disciplina terapeutica peculiare per il fatto che storicamente la verità di un intervento è stata sempre considerata importante se non primaria (si pensi per esempio, all'insight e al rendere conscio l'inconscio quali obiettivi terapeutici della psicoanalisi). Sin dall'inizio la psicoanalisi è stata impegnata da questo problema della validità delle interpretazioni. La risposta di Freud su questo tema è qualificata da Grünbaum (1980) come «l'argomento della congruenza». Freud (1916-17, voi. 8, pp. 597-611) ha ipotizzato e insistito sul fatto che solo le interpretazioni che «collimano con la realtà» hanno efficacia terapeutica. Di conseguenza era il successo terapeutico ad attestare della validità delle interpretazioni (e della teoria della personalità dalla quale discendevano le interpretazioni stesse). Naturalmente, come Grünbaum (1980) dimostra con grande chiarezza, questa posizione non regge. Ma l'ipotesi freudiana della «congruenza» continua a essere implicitamente sostenuta. Come ho cercato di mostrare in precedenza, Sherwood si preoccupa, per esempio, dell'esattezza delle ricostruzioni psicoanalitiche nel contesto clinico perché implicitamente dà per scontato che esse siano rilevanti in quel contesto La convinzione che in condizioni adeguate la verità non solo illumini, ma liberi, è un valore che ha sempre informato la psicoanalisi. Ed è un valore che molti di noi condividono. A mio parere è proprio questo valore che, in ultima analisi, la posizione ermeneutica nega e rifiuta. Tuttavia, esso non risulta rafforzato da una confusione o commistione tra veridicità ed efficacia. È un argomento che esplorerò più a fondo nel prossimo capitolo. LA PSICOANALISI COME TERAPIA E COME TEORIA: VERIDICITÀ ED EFFICACIAA mio avviso sin dagli inizi la psicoanalisi ha confuso i propri obiettivi terapeutici e di «ricerca» (ovvero teorico-esplicativi). Come abbiamo osservato, Freud riteneva che la psicoanalisi dovesse essere ricordata più per le verità che aveva proposto che per la sua efficacia terapeutica. Si tratta probabilmente di una aspirazione legittima, ma quando si considera che queste verità vengono presentate a pazienti in trattamento, e non a ricercatori, nasce un grave problema. Il profondo dilemma morale viene risolto se si parte dalla confortante idea che, dato che sofferenza e malattia vengono alleviate quando si ottiene una comprensione e un'illuminazione su talune verità riguardo a se stessi, gli obiettivi terapeutici e quelli della ricerca possono essere perseguiti simultaneamente. Se si parte da questa idea, l'esattezza delle formulazioni dell'analista, l'insight del paziente e l'avanzamento delle conoscenze psicoanalitiche per fortuna convergono, e possono essere perseguiti contemporaneamente nella normale situazione psicoanalitica clinica. Tuttavia, questo quadro armonioso e questa felice convergenza di obiettivi sono drammaticamente sconvolti da alcune considerazioni e alcuni problemi che gli analisti hanno sempre cercato di eludere. Per esempio, cosa succede se l'insight e la conoscenza di sé non risultano poi così terapeutici? E cosa succede se ciò che consideriamo una conoscenza e un'illuminazione su se stessi si rivela, in parte, un'acquiescenza alle aspettative e alla posizione teorica del terapeuta? Si noterà che per poter rispondere a queste domande (e ad altre simili), si deve disporre di criteri autonomi per valutare l'efficacia e la veridicità delle interpretazioni. Ora — e il fatto è degno di nota — la psicoanalisi non si è mai interessata in maniera sistematica a nessuno di questi due problemi. Ma dava per scontata la veridicità sulla base di una presunta efficacia (l'argomentazione freudiana del «riscontro») e l'efficacia sulla base di una presunta veridicità (l'insight e il render conscio l'inconscio sono terapeutici — la verità che «vi renderà liberi»). Ma né l'efficacia né la veridicità sono state dimostrate in modo autonomo e sistematico. La psicoanalisi è riuscita in parte a sfuggire all'esigenza di una rigorosa affidabilità a causa dell'idea, ampiamente condivisa, secondo cui il perseguimento dell'insight, della consapevolezza e della conoscenza di sé anche se non porta ad acquisizioni terapeutiche specifiche (per esempio l'eliminazione dei sintomi) è cionondimeno un'impresa legittima, e pure nobile. Indubbiamente può esserlo ma — come ho cercato di dimostrare — questo lascia aperta la domanda fino a quando non riusciremo a capire in quale misura quello che chiamiamo insight o conoscenza di sé è solo, o è soprattutto, prodotto dell'acquiescenza e della suggestione (e qui ricorderò al lettore l'osservazione di Marmor [1982] a proposito degli insight freudiani dei pazienti freudiani e degli insight junghiani dei pazienti junghiani). Ai problemi inerenti al tema della veridicità si può rispondere trascurando del tutto questo tema e giustificandolo interamente sulla base pragmatica dell'efficacia. Non ci si chiede, per esempio, se un farmaco è vero, o se la desensibilizzazione sistematica è vera, o se un rapporto terapeutico di fiducia è vero. Ci si può solo chiedere in quale misura e in quali modi essi risultano efficaci, e quanto esatti siano i resoconti teorici sulla loro efficacia, di qualsiasi grado o tipo essa sia. In qualche modo, questo assunto è implicito nelle discussioni recenti sulla teoria psicoanalitica. In pratica, si pone molto meno l'accento sulle interpretazioni veridiche tali da favorire l'insight e molto di più su altri fattori, quali il rispecchiamento e l'empatia e, in generale, sul rapporto terapeutico di per sé. La questione della veridicità, ovviamente, è rilevante solo per le interpretazioni, e non per questi altri elementi. Di conseguenza, nella misura in cui sono questi altri fattori ad essere sottolineati la questione della veridicità non si pone. Va notato che se la psicoanalisi si giustifica interamente sulla base pragmatica dell'efficacia, allora essa si colloca accanto ad altri tipi di intervento terapeutico, nei quali la veridicità dell'intervento non sussiste. Ma se così è, le questioni relative all'affidabilità e al rapporto costi/efficacia assumono un'importanza cruciale. Infatti, non si possono più giustificare altrettanto facilmente i propri interventi sulla base del fatto che promuovono la conoscenza di sé o sulla base della semplice fede che «la verità vi renderà liberi». Li si può giustificare solo in base alla loro efficacia. Ma è proprio vero che la psicoanalisi debba tralasciare del tutto la questione della veridicità delle proprie formulazioni e interpretazioni? Nella misura in cui essa è una teoria del comportamento umano oltre che una terapia, ci si aspetterebbe che, come qualsiasi altra teoria, debba essere interessata alla veridicità e alla validità delle proprie formulazioni, quale che sia il loro rapporto con la situazione terapeutica. Come va affrontato questo problema? A me sembra che dall'esame precedente (oltre che da altre fonti, ad esempio la dimostrazione da parte di Grünbaum [1980] dello status epistemologicamente impuro dei dati clinici) sia emerso che, contrariamente all'antica convinzione della comunità psicoanalitica, la situazione psicoanalitica non è un ambito adeguato per verificare la validità delle formulazioni psicoanalitiche teoriche. Se infatti, in comune con molte situazioni d'incontro interpersonale, la situazione clinica costituisce un ambito adeguato per la comprensione empatica e una identificazione (anche parziale) con un dato paziente, ed è senz'altro un ambito adeguato per cercare di aiutare quel paziente, e può essere una confortante fonte euristica per la formulazione di ipotesi, essa offre pochi elementi in grado di generare i criteri affidabili per determinare in maniera sistematica la validità di queste ipotesi. Come abbiamo visto, empatia e «identificazione cognitiva» non costituiscono tali criteri. A mio avviso non resta altra alternativa che concludere che il modo migliore per determinare la validità delle formulazioni psicoanalitiche sia farlo al di fuori della stanza di consultazione. Solo al di fuori della situazione clinica si possono ottenere controlli adeguati e un adeguato grado di rigore, i quali consentono conclusioni affidabili e una ragionevole generalizzabilità. Il fatto è che, come qualsiasi altra teoria, la teoria psicoanalitica consiste in un corpus di proposizioni (per quanto informali o imprecise) generalmente applicabile al comportamento umano. Il singolo paziente costituisce una occasione per l'applicazione individuale di questo corpus generale di proposizioni. Di conseguenza, del tutto contrariamente alla concezione corrente della comunità psicoanalitica, se si è interessati alla validità o alla veridicità, anziché all'efficacia o a qualcosa come il capire o il sentirsi capito da parte del terapeuta o del paziente, sarà il grado di conferma delle ipotesi generali a partire dalle quali è stata sottoposta a verifica l'interpretazione singola che darà un eventuale sostegno alla interpretazione o alla formulazione particolare in un dato caso individuale. Il giudizio critico è essenziale per decidere quali ipotesi generali siano più pertinenti ai fenomeni individuali considerati. Ed è in questo campo come nell'elaborazione di interventi specifici sul caso che le componenti intuitive, anche «artistiche», del giudizio clinico sono più evidenti. Non intendo sminuire l'importanza di queste componenti nelle formulazioni cliniche e nel trattamento di casi singoli. Ma la loro importanza non deve far perdere di vista il ruolo delle proposizioni generali come fondamento di queste formulazioni cliniche individuali. Le formulazioni psicoanalitiche più sostanziate lo sono grazie a un solido sostegno proveniente dall'esterno della situazione clinica; e così pure, quelle meno sostanziate o anche respinte sono tali in virtù di prove extra-cliniche. Consideriamo alcuni esempi tratti da quest'ultima categoria: abbiamo già visto che le prove derivanti dalla ricerca sui neonati mettono gravemente in questione gli assunti teorici secondo cui il neonato attraverserebbe un periodo di «autismo normale» (Mahler, 1968) o, ancor prima, si troverebbe in uno stato di narcisismo primario oppure sarebbe totalmente incapace di differenziazione tra sé e l'altro (per un più approfondito esame di questo tema cfr. Klein [1980] e Stern [1980]). Abbiamo anche visto che le teorie generali della «pulsione secondaria» nell'attaccamento neonato-madre (un esempio delle quali è la teoria «anaclitica» di Freud) sono state sostanzialmente confutate dal classico esperimento di Harlow e da altre prove addotte. Altri esempi di ipotesi psicoanalitiche contraddette da evidenze provenienti dall'esterno della situazione psicoanalitica sono l'ipotesi della sostituzione del sintomo e l'affermazione che tutti i sogni siano generati dall'esaudimento di un desiderio. Riguardo al primo caso, prove considerevoli indicano che il miglioramento terapeutico o l'eliminazione di un sintomo (per esempio mediante una qualche tecnica di terapia del comportamento), probabilmente senza risoluzione del conflitto soggiacente, non porta necessariamente alla sostituzione del vecchio con un nuovo sintomo. Quanto poi all'ipotesi del sogno come esaudimento di un desiderio, l'ampia ricerca recente sul sonno REM mostra che nel sonno umano il sogno si verifica all'incirca ogni novanta minuti, che tutti i mammiferi sognano, e che il sogno è un aspetto psicologico di uno stato fisiologico complesso e fondamentale che certamente non richiede la spinta all'esaudimento di un desiderio come fattore scatenante. Tornando alle formulazioni psicoanalitiche che invece trovano supporto al di fuori della situazione clinica, si pensi all'ipotesi fondamentale di Fairbairn che la libido è «una ricerca d'oggetto», e l'affermazione di Balint (1937) secondo cui è più esatto caratterizzare il neonato nei termini di «oggetto d'amore primario» che nei termini di «narcisismo primario». Come abbiamo visto, numerose prove mostrano che il neonato ricerca e dà inizio all'elaborazione di stimoli quasi subito dopo la nascita, mostra preferenze selettive per certi tipi di stimolazione esterna, è estremamente reattivo agli oggetti che comportano, come dice Harlow (1958), un «benessere da contatto» (stimolazione tattile) e stimolazione cenestesica (come già osservato, tutte queste prove contraddicono qualsiasi concetto di «odio primario» innato verso gli oggetti). Questa tendenza alla «ricerca dell'oggetto» può ovviamente essere collegata a un sistema di attaccamento innato, quale è stato ipotizzato da Bowlby (1969). Il neonato nasce con un repertorio comportamentale che non solo fornisce segnali (per esempio il riso, la vocalizzazione), ma consegue anche, in modo più diretto e attivo (per esempio tramite la suzione e l'avvinghiarsi), l'obiettivo generale di ottenere la vicinanza della persona che si prende cura di lui. Le prove dell'esistenza di un sistema comportamentale di attaccamento innato non provengono ovviamente dalla situazione clinica, ma dall'osservazione del comportamento del neonato e delle interazioni neonato-madre in tutta una vasta gamma di casi. Ora, l'inserimento del concetto di attaccamento in un contesto biologico evolutivo più ampio gli fornisce una solidità che non può essergli offerta dai soli dati clinici. Benché queste formulazioni provengano dall'esterno, hanno tuttavia delle implicazioni per la situazione clinica. Vorrei però aggiungere che anche se non vi fosse alcuna implicazione terapeutica immediata o evidente, la confutazione e la conferma delle formulazioni psicoanalitiche sulla natura e il comportamento umano mi apparirebbero pur sempre un compito essenziale. La psicoanalisi, lo ripeto, è una teoria della natura umana, oltre che una terapia. A mio avviso, dunque, queste confutazioni e queste conferme hanno implicazioni terapeutiche (anche se non relativamente a tecniche specifiche), alcune delle quali sono già state accettate. Per esempio, la sempre maggiore accentuazione del rapporto stesso come veicolo terapeutico primario rispecchia un mutamento teorico nell'immagine della natura umana, da organismo istintuale mosso dalla gratificazione e che tenta di ridurre la tensione a organismo che è alla ricerca dell'oggetto e ha bisogno dell'oggetto. Sarei sorpreso se l'abbandono dell'ipotesi della sostituzione del sintomo non avesse ovvie implicazioni concrete per il trattamento. Come minimo, suggerirebbe che non è necessario guardare automaticamente con sospetto e considerare futili quei metodi e quegli obiettivi terapeutici che s'incentrano prevalentemente sull'alleviamento e il miglioramento del sintomo. Al massimo, è possibile — e forse in certe situazioni anche probabile — che l'alleviamento del sintomo funga di per sé da veicolo di un'ulteriore crescita della personalità. Quanto alle implicazioni che i recenti studi sui sogni comportano, l'indebolimento dell'ipotesi del sogno come esaudimento di un desiderio (o almeno di quell'aspetto dell'ipotesi che vede nei desideri le forze motivazionali necessarie per il verificarsi dei sogni), sommato ad altre scoperte, sembra confermare l'ipotesi presa in considerazione e rifiutata dallo stesso Freud che i sogni siano delle cognizioni del sonno che rispecchiano le nostre preoccupazioni, le cose che abbiamo lasciate a metà, e che siano sostanzialmente un tentativo di risolvere e padroneggiare problemi. Infine, come esempio di scoperte al di fuori del contesto clinico comportanti implicazioni dirette per le formulazioni cliniche (e per gli interventi clinici), mi servirò ancora una volta della sindrome dell'agorafobia. Qui, scoperte e concetti provenienti da campi diversi convergono nella conclusione che il più delle volte l'agorafobia rappresenta sostanzialmente una crisi nella separazione-individuazione o, come dice Fairbairn (1952), un «conflitto tra l'impulso progressivo alla separazione dall'oggetto e l'allettamento regressivo dell'identificazione con l'oggetto» (p. 68). Questa conclusione è supportata da una gamma di prove altrettanto vasta quanto il rapporto tra sicurezza offerta dall'attaccamento e grado di comportamento esplorativo: il rapporto tra «base sicura» ed esplorazione; la precedente incidenza di fobie scolastiche; la vicenda familiare; la natura del rapporto coniugale. Come ho già detto, queste scoperte contribuiscono poi a dare una base più solida per l'elaborazione di formulazioni e interventi clinici specifici e idiosincratici nel caso individuale. Molti psicoanalisti, ponendo l'accento esclusivamente sui casi clinici, sembrano partire dall'ipotesi che l'acquisizione della conoscenza psicoanalitica vada nella direzione opposta — e cioè dai singoli casi alle proposizioni teoriche. Tuttavia, l'assunto che la spiegazione psicoanalitica sia interessata soprattutto al caso singolo ha generato molta confusione. Ha portato per esempio, come abbiamo visto, al suggerimento di Sherwood (1969) che la «ricostruzione» psicoanalitica individuale debba essere giudicata secondo criteri che sono più adeguati per la valutazione di spiegazioni teoriche generali. Ora, la nostra può sembrare una domanda ingenua, ma perché si deve voler sapere tutto il possibile su un dato paziente? Qual è lo scopo terapeutico? O non è forse giustificato principalmente o unicamente dall'obiettivo «della ricerca» dell'avanzamento delle conoscenze psicoanalitiche? Se così è, siamo riportati al tema originario della veridicità, e la proposta di Sherwood che l'«esattezza» serva come uno dei criteri di validità nella valutazione delle «ricostruzioni» non ci è d'alcun aiuto, dato che non ci viene detto come debba essere giudicata questa esattezza — e questa è proprio la domanda dalla quale eravamo partiti. «Accesso privilegiato»Ciò che è alla base dell'attenzione per il caso individuale è in parte la convinzione che il riconoscimento da parte del paziente sia un criterio centrale e per alcuni (per esempio Mischel, 1963, 1966) indispensabile per valutare la validità delle interpretazioni psicoanalitiche. Questo criterio è chiaramente connesso in modo inestricabile alla situazione clinica, nella misura in cui si fa riferimento al riconoscimento da parte di un paziente analitico, e nella misura in cui questa posizione è elaborata per riferirsi a un riconoscimento «a posteriori», susseguente all'insight e all'eliminazione della rimozione. Il ruolo centrale assegnato al riconoscimento, vuoi immediato vuoi posticipato, si basa a sua volta sull'assunto filosofico che la persona abbia un «accesso privilegiato» a ciò che esperisce, desidera, vuole, auspica, ecc. Ne deriva, in ultima analisi, che solo il riconoscimento da parte della persona di ciò che essa vuole, desidera, ecc. può convalidare un'interpretazione o una formulazione nelle quali sono attribuiti ad altri aspirazioni o desideri. In questo schema desideri e tendenze inconsci vengono considerati estensioni delle loro controparti ordinarie e, di conseguenza, si ritiene che 1'«accesso privilegiato» continui ad essere valido, anche se in senso retrospettivo. Altrove ho affrontato a lungo questo argomento (Eagle, 1982c), ma desidero ripetere qui i seguenti punti: se si può sostenere con una certa sicurezza la tesi dell'«accesso privilegiato» riguardo all'esperienza fenomenologica, la forza di questo «accesso privilegiato» è però inversamente proporzionale alla sua distanza dall'esperienza immediata dei fenomeni in questione. Più questo accesso è distante dall'esperienza immediata, più il resoconto degli «eventi interni» da parte di un osservatore è fallace. Per esempio, un resoconto di un evento o di un'esperienza passati è soggetto a errori e distorsioni quanto qualsiasi altro materiale presentato. Oppure, come altro esempio, uno schema d'azione persistente può essere incongruo o anche contraddittorio con ciò che una persona afferma siano le proprie motivazioni, i propri desideri e i propri obiettivi. Ne deriva che ben poche sono le possibilità di applicare la tesi dell'«accesso privilegiato» a fenomeni distanti dall'esperienza diretta. Ma sono proprio questi fenomeni — per esempio desideri e motivazioni inconsce — ad essere prevalentemente affrontati dalla psicoanalisi. Alcuni aspetti del concetto psicoanalitico di insight si basano su una versione implicita e modificata del concetto di «accesso privilegiato». Nella sua forma più semplice, l'idea è che, una volta eliminata la rimozione, il paziente esperisca direttamente e consapevolmente quei desideri, quelle tendenze, quelle idee, ecc. che prima erano inconsce. Di conseguenza, il riconoscimento da parte del paziente gode di uno status particolare e privilegiato nella misura in cui egli riferisce cose di cui ora ha un'esperienza conscia diretta. Tuttavia, come abbiamo visto, il fatto che il paziente tenda a «esperire» e riferire insight in sintonia con la posizione teorica del terapeuta sconvolge il concetto di insight sopracitato e suggerisce un processo più complesso e «costruttivo» nel quale operano aspettative, suggestioni e acquiescenza. Inoltre, le cose rispetto alle quali il paziente riferisce di avere un insight spesso comportano sottili formulazioni, non direttamente collegate all'esperienza immediata (per esempio la consapevolezza di uno schema di comportamento e la consapevolezza di fattori sottili implicati nell'angoscia). Sicché non vi è alcuna buona ragione per assegnare a questi insight lo status di «accesso privilegiato». Il concetto stesso di desiderio inconscio (e concetti correlati) come semplice desiderio conscio cui si somma la rimozione (o come un desiderio latente o potenziale) rivela, a mio avviso, una comprensione ingenua e inesatta di questo stesso concetto. Significa trattare il concetto come se fosse sostanzialmente di natura esperienziale, anziché un costrutto teorico e inferenziale inteso a dar conto di un certo comportamento difficile da spiegare (si veda l'esame che di questo concetto fa Rubinstein [1976]). Considerare il desiderio inconscio un concetto quasi-esperienziale porta allora a proporre come criterio cruciale il riconoscimento «a posteriori», e a conferire a tali riconoscimenti il titolo di «accesso privilegiato». Un altro fattore che suscita dubbi sul primato di questo riconoscimento quale criterio è il concetto di difesa. Data la ubiquità dei processi difensivi, perché insistere sul riconoscimento? E se questo riconoscimento non arrivasse mai? Che succede se le formulazioni cliniche sulle quali si basa l'interpretazione sono state ben stabilite, e se l'interpretazione dà conto di tutti i fatti, è predittiva, e così via? Si dovrebbe ancora insistere sul riconoscimento prima di giudicare della validità dell'interpretazione? Se un resoconto esplicativo del comportamento di una persona è adeguato per i criteri abituali attraverso i quali vengono valutate le spiegazioni, perché occorre richiedere il consenso e il riconoscimento della persona? A me sembra che l'insistenza sulla necessità del riconoscimento da parte del paziente per determinare la veridicità dell'interpretazione non sia che un ulteriore esempio della confusione tra obiettivi terapeutici e obiettivi esplicativi. Se il riconoscimento da parte del paziente può avere un'importanza critica nel contesto terapeutico, perché deve rivestire un ruolo speciale anche nel contesto esplicativo? È una domanda particolarmente calzante non appena si considerino le spiegazioni psicoanalitiche al di fuori del contesto clinico, dove non vi è nessun paziente a compiere nessun riconoscimento (o mancato riconoscimento). Una volta accettato che il riconoscimento da parte del singolo paziente non è una condizione né necessaria, né sufficiente per convalidare le interpretazioni psicoanalitiche (e certamente non una condizione necessaria o sufficiente per verificare posizioni psicoanalitiche generali), viene a mancare un'altra base ancora su cui poggiare il valore epistemologico del caso clinico singolo. Siamo costretti da un ulteriore punto di vista ad accettare la conclusione che per valutare e confermare interpretazioni e proposizioni psicoanalitiche dobbiamo affidarci soprattutto a fonti extra-cliniche. L'interesse per il caso singolo e la «ricostruzione» individuale si giustifica solo su basi terapeutiche o perché contribuisce alla teoria psicoanalitica generale. Riguardo a quest'ultima questione, poi, non vi è alcuna giustificazione manifesta di una «ricostruzione» individuale elaborata ed esaustiva. Che il caso clinico individuale fornisca conoscenze affidabili e dia un affidabile contributo alla teoria psicoanalitica è una questione aperta a gravi dubbi. Considerati tutti i problemi prima esaminati connessi a tale metodo — per esempio lo status epistemologicamente impuro dei dati clinici — non credo che esso sia una fonte attendibile per valutare formulazioni e ipotesi psicoanalitiche generali, per quanto possa risultare utile sul piano euristico. Sicché torno a ripetere che i dati provenienti dall'esterno della situazione clinica costituiranno probabilmente la fonte migliore per una valutazione rigorosa e sistematica delle formulazioni psicoanalitiche. Molte formulazioni recenti nella teoria psicoanalitica, che continuano a basarsi su casi clinici individuali, vengono considerate segno di progresso nella conoscenza psicoanalitica. Ora, non è chiaro in che senso esse rappresentino un progresso. A mio avviso, più che costituire un progresso sono un esempio della inconsistenza insita nell'affidarsi unicamente o prevalentemente a dati derivati dalle situazioni cliniche, e della necessità di confrontare le proprie formulazioni con le conoscenze attuali, elaborate in maniera più rigorosa. La mia impressione è che gran parte della teorizzazione psicoanalitica attuale sia più satura di gergo di quanto lo fossero i primi scritti psicoanalitici. In effetti, buona parte della letteratura psicoanalitica recente comprende formulazioni così vaghe e gergali che c'è seriamente da chiedersi se abbiano un qualche significato empirico. Spesso il primo passo da fare quando ci si avvicina a questo materiale consiste nel districare ciò che realmente l'autore vuole dire e recuperare così il contenuto empirico che risiede in quelle formulazioni7S. Questo va considerato un progresso? Ho l'impressione che molti teorici e autori recenti prestino molta minore attenzione al corpus delle attuali conoscenze al di fuori della psicoanalisi di quanto non facesse lo stesso Freud. Questa tendenza è in parte incoraggiata dalla diffusa convinzione che la psicoanalisi si basi su metodi peculiari (empatia e «identificazione cognitiva», come abbiamo visto) per acquisire conoscenze, e pertanto non abbia bisogno di sapere se tali conoscenze siano congruenti o meno con quanto si conosce al di fuori della disciplina. Il fatto di trascurare e ignorare più o meno volutamente informazioni e conoscenze provenienti dalla ricerca al di fuori della psicoanalisi mi sembra collegato anche al concetto di psicoanalisi come disciplina ermeneutica o interpretativa, e all'interesse praticamente esclusivo per la «ricostruzione» individuale e per il caso clinico. Abbiamo visto prima come il trascurare le ricerche sul neonato autorizzi, per esempio, formulazioni sullo sviluppo che non solo non sono suffragate da prove, ma che in realtà sono l'opposto di ciò che siamo arrivati a sapere sulla natura dell'infanzia. Dobbiamo forse considerare queste formulazioni, e le costruzioni teoriche elaborate cui esse portano, come un segno di progresso? Abbiamo visto esempi notevoli di come il caso clinico possa essere utilizzato da seguaci di scuole teoriche diverse per fornire prove selettive del proprio particolare punto di vista. Ricordo al lettore quanto notato da Gedo (1980) a proposito del fatto che, mentre gli analisti nell'insieme di casi clinici di Goldberg (1978) hanno trovato ampie prove di disturbi del Sé e praticamente nessuna prova di conflitti edipici, gli analisti del New York Psychoanalytic Institute, lavorando con pazienti apparentemente simili, hanno registrato ripetuti esempi di conflitti edipici e abbastanza poche prove di disturbi del Sé, tanto da giustificare la totale assenza di qualsiasi riferimento a questa patologia. Come già si è osservato, poiché il comportamento è spesso poco trasparente sulle motivazioni e i determinanti soggiacenti, spesso è possibile interpretare un dato comportamento come se fornisse prove del proprio punto di vista teorico. Il caso clinico si presta in modo ottimale non solo a un'interpretazione selettiva, ma anche alla distorsione selettiva delle prove. Dopotutto, non sono resoconti letterali quelli che vengono riferiti, ma «traduzioni» che rispecchiano le concezioni dell'analista di ciò che è importante e vai la pena di riferire. Sarebbe ingenuo credere che gli analisti siano in qualche modo immuni dall'influenza di tutti questi fattori selettivi e distorcenti, nell'organizzazione cognitiva e nella memoria, che colpiscono il resto dei mortali. È evidente che se il caso clinico può avere un grande valore euristico nel generare idee e ipotesi, molto di rado — quando addirittura mai — ha un valore probativo. Il fatto che si possano citare il rispecchiamento e il transfert idealizzante nell'analisi e, in generale, i resoconti del paziente adulto a sostegno di una teoria eziologica concernente l'effetto causale della mancanza di rispecchiamento precoce sulla formazione di disturbi del Sé, altro non è che un esempio evidente dell'uso improprio dei dati ottenuti dal caso clinico, e del tentativo d'impiegare in modo probativo questi dati. Considerate tali concezioni inadeguate della natura della prova a sostegno, .c'è da chiedere nuovamente se i recenti cambiamenti nelle formulazioni psicoanalitiche costituiscano davvero un progresso. A mio avviso è ormai tempo che gli autori psicoanalitici si rendano conto che l'impiego del caso clinico a conferma di un particolare punto di vista teorico è semplicemente inadeguato. Condivido pienamente le recenti osservazioni di Holzman (1976): «È pertanto degno di nota che la nostra disciplina, vecchia di ottant'anni, non abbia mai elaborato ulteriori canoni per la ricerca (oltre ai casi clinici) e per giudicare il valore dei contributi. Ampi segmenti di ciò che insegnamo non possono essere né confermati né confutati. Nuove idee nella psicoanalisi provocano qualche tentativo a favore e a sfavore, ma questo non è sufficiente. A differenza [...] della critica letteraria, abbiamo bisogno di qualcosa di più di questi saggi. Abbiamo bisogno di proposte per verificare sistematicamente le idee, e purtroppo sono ancora troppo pochi quelli che richiedono tali verifiche» (p. 269).
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